Condominio, ecco quando puoi impugnare il verbale dell’assemblea, anche se hai già firmato: tutti i casi

Pubblicato il: 20/05/2025

L’assemblea del condominio, com'è noto, è l’organo di autogoverno dei condomini e serve a disciplinare l’uso dei servizi e delle cose comuni. Essa rappresenta, infatti, la suprema volontà dei condomini, caratterizzata dall’essere una volontà collegiale e, quindi, distinta ed autonoma rispetto a quella dei singoli partecipanti.

Può definirsi, dunque, come l’insieme dei condomini che si raduna per prendere una o più decisioni e che delibera con il voto di una maggioranza o con quello di tutti i componenti. L'ultimo comma dell'art. 1136 del codice civile recita: "delle riunioni dell'assemblea si redige processo verbale da trascrivere nel registro tenuto dall'amministratore".

La delibera si traduce, quindi, in un atto collettivo che rappresenta l’incontro di più volontà distinte dei condomini, tendenti però ad un unico scopo, individuabile nel raggiungimento di un efficiente funzionamento della gestione dello stabile. È un procedimento a formazione progressiva, che ha come prima fase imprescindibile la convocazione di tutti gli aventi diritto (art. 1136, comma 6, c.c.) – di cui deve essere fornita prova al presidente dell’assemblea perché ne sia dato atto a verbale, nell’ambito delle operazioni preliminari ai lavori assembleari – e che si conclude con la comunicazione del verbale ai condomini, in particolare a quelli assenti, la cui prova incombe all’amministratore secondo i comuni mezzi.

Come dispone l'art. 1136 del codice civile, tutti gli aventi diritto devono essere convocati alla riunione, pena l’annullabilità delle delibere, con avviso da comunicarsi loro almeno cinque giorni prima della data fissata per l’adunanza, così come previsto dall'art. 66 disp. att. c.c.
L'assemblea, oltre che annualmente – in via ordinaria – per le deliberazioni indicate dall'articolo 1135 del codice, può essere convocata in via straordinaria dall'amministratore quando questi lo ritiene necessario o quando ne è fatta richiesta da almeno due condomini che rappresentino un sesto del valore dell'edificio. Decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, i detti condomini possono provvedere direttamente alla convocazione.
In mancanza dell'amministratore, l'assemblea – tanto ordinaria quanto straordinaria – può essere convocata a iniziativa di ciascun condomino.
L'avviso di convocazione, contenente specifica indicazione dell'ordine del giorno, deve essere comunicato – almeno cinque giorni prima della data fissata per l'adunanza in prima convocazione – a mezzo di posta raccomandata, posta elettronica certificata, fax o tramite consegna a mano, e deve contenere l'indicazione del luogo e dell'ora della riunione o, se prevista in modalità di videoconferenza, della piattaforma elettronica sulla quale si terrà la riunione e dell'ora della stessa. In caso di omessa, tardiva o incompleta convocazione degli aventi diritto, la deliberazione assembleare è annullabile ai sensi dell'articolo 1137 del codice, su istanza dei dissenzienti o degli assenti perché non ritualmente convocati.

Anche ove non espressamente previsto dal regolamento condominiale, previo consenso della maggioranza dei condomini, la partecipazione all'assemblea può avvenire in modalità di videoconferenza. In tal caso, il verbale, redatto dal segretario e sottoscritto dal presidente, è trasmesso all'amministratore e a tutti i condomini con le medesime formalità previste per la convocazione.

Ma quali sono gli elementi che dovranno essere inseriti all’interno del verbale e quando è possibile procedere con la sua impugnazione?
Perché una delibera condominiale sia valida, il verbale deve contenere almeno i seguenti elementi:

  • nominativi di presidente e segretario: la mancata nomina o l’omessa indicazione è una mera irregolarità (Cass. n. 4615/1980);
  • verifica della regolare convocazione di tutti i condomini: obbligatoria ai sensi dell’art. 1136, comma 6, c.c.;
  • elenco dei presenti (o rappresentati per delega): con i relativi millesimi o indicazioni che ne consentano la ricostruzione;
  • verbalizzazione delle votazioni, da cui devono risultare chiaramente favorevoli, contrari, astenuti e millesimi rappresentati da ciascun gruppo.

È valida la verbalizzazione per differenza, ossia fatta indicando contrari e astenuti e deducendo i favorevoli (Cass. n. 18192/2009; n. 24456/2009).
Si ricorda, infine, che il verbale di assemblea condominiale è una scrittura privata: ai sensi della sentenza n. 11375/2017, pronunciata dalla Corte di Cassazione, può avere valore legale soltanto in merito alla provenienza delle dichiarazioni di chi lo ha sottoscritto, dunque il presidente e il segretario.
Di conseguenza, il verbale non contiene alcuna attestazione di veridicità sul suo contenuto: questo significa che sarà possibile contestarlo con qualsiasi mezzo probatorio, senza la necessità di proporre “querela di falso”.
Alla luce di quanto detto è, dunque, chiaro come l’eventuale sottoscrizione del condomino non gli impedisca di contestare il verbale, proponendo impugnazione nell’ordinario termine di trenta giorni dal giorno dell’adunanza. La firma del verbale assembleare, infatti, non comporta l’accettazione della deliberazione, costituendo solo una prova del fatto che l’adunanza si è svolta in un certo luogo e in una determinata data e che la riunione ha deciso di adottare le decisioni rappresentate nel documento.
Ai fini dell’impugnazione l’unica cosa che rileva è che il condomino presente si sia astenuto oppure sia stato dissenziente.


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Pensioni 2025, brutta sorpresa in arrivo, da giugno l’INPS taglierà le pensioni: ecco a chi e cosa controllare

Pubblicato il: 20/05/2025

Il mese di giugno sarà poco piacevole per molti pensionati italiani: diverse pensioni subiranno una riduzione, anche se non tutti ne conoscono ancora il motivo.
L’INPS, infatti, ha avviato il recupero di alcune somme erogate nel corso del 2022 sotto forma di bonus straordinari. Parliamo dei contributi una tantum da 200 e 150 euro, previsti dai decreti Aiuti e Aiuti-ter e finalizzati a contrastare l’impatto dell’inflazione e dell’aumento dei costi energetici.
All’epoca, l’erogazione fu automatica e tempestiva: l’urgenza imposta dalla crisi energetica spinse lo Stato a disporre il pagamento diretto di questi aiuti a milioni di cittadini, senza attendere le verifiche fiscali. Tuttavia, come era stato chiarito fin dall’inizio, quei bonus erano vincolati a precise soglie di reddito. Oggi, a distanza di quasi tre anni, si chiude il cerchio: chi ha percepito l’indennità senza avervi diritto dovrà restituirla.

Un recupero che parte dai controlli sui redditi 2021
Il meccanismo di verifica e recupero (annunciato il 7 gennaio 2025) è stato attivato incrociando i dati delle dichiarazioni dei redditi 2021, anno di riferimento per stabilire la legittimità dei pagamenti. In particolare, il bonus da 200 euro era destinato a chi, nel 2021, non aveva superato i 35.000 euro di reddito, mentre quello da 150 euro spettava solo ai contribuenti con redditi fino a 20.000 euro. In caso di rilevazione a posteriori, da parte dell’INPS, del mancato rispetto di uno o entrambi i requisiti, scatta la procedura di rimborso.

Come funziona la restituzione
Il recupero delle somme avverrà in maniera graduale: l’Istituto ha previsto una trattenuta mensile sull’importo della pensione, pari a 50 euro. Questo importo verrà detratto fino al completo rientro della cifra da restituire. Non si tratta, dunque, di un prelievo una tantum, ma di una decurtazione scaglionata nel tempo per rendere meno gravoso il rimborso.
Nel caso in cui non sia possibile effettuare la trattenuta direttamente sulla pensione, l’INPS invierà al cittadino un avviso di pagamento con le istruzioni per versare la somma dovuta tramite il circuito PagoPA.

Nessuna richiesta da presentare, ma è bene monitorare il cedolino
I pensionati coinvolti non devono presentare alcuna domanda o istanza: la procedura è gestita interamente dall’INPS. Tuttavia, è consigliabile controllare attentamente il cedolino pensione di giugno, disponibile online attraverso l’area riservata del portale INPS. Eventuali decurtazioni saranno visibili all’interno del dettaglio del pagamento.

Una misura impopolare, ma preannunciata
Anche se per molti questa novità può sembrare una sorpresa sgradita, va ricordato che il recupero delle somme non spettanti è previsto per legge. Inoltre, la misura era già stata annunciata: non si tratta di un cambio di rotta da parte dell’INPS, ma dell’applicazione di norme già in vigore al momento dell’erogazione dei bonus.


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Legge 104, ecco quando ti può essere negato il congedo straordinario o la pensione anticipata: chiarimento INPS

Pubblicato il: 20/05/2025

Molteplici sono gli strumenti predisposti dall’ordinamento al fine di garantire la piena integrazione e assistenza del disabile; emergono, tra tutti, il riconoscimento del diritto ai permessi retribuiti previsti dall’art. 33 della legge 104 e il congedo biennale straordinario, previsto dall'art. 42 D.lgs. n. 151/2001, comma 5. Misura, quest’ultima, volta a favorire l'assistenza al disabile grave in ambito familiare e ad assicurare continuità nelle cure e nell'assistenza, al fine di evitare lacune nella tutela della salute psico-fisica dello stesso.

Con la L. 213/2023 (legge di bilancio 2024), il legislatore ha poi riconosciuto alle lavoratrici caregiver il diritto a “Opzione donna”, la misura sperimentale che consente, alle lavoratrici, di ottenere un trattamento pensionistico con requisiti notevolmente ridotti rispetto a quelli previsti per la pensione anticipata ordinaria.

In particolare, per effetto delle previsioni della citata legge, i requisiti per ottenere l’Opzione donna risultano i seguenti:

  • compimento, entro il 31 dicembre 2024, di 61 anni di età, ridotti a 59 anni con 2 o più figli e a 60 anni di età con un unico figlio;
  • raggiungimento di 35 anni di contributi entro il 31 dicembre 2024;
  • attesa di un periodo – finestra, a partire dalla data di maturazione dell’ultimo requisito e sino alla decorrenza della pensione, pari a 12 mesi per le lavoratrici dipendenti, 18 mesi per le autonome.

Quanto alle condizioni soggettive, occorre rientrare in uno dei seguenti profili di tutela:
  • assistere – al momento della richiesta di prepensionamento e da almeno sei mesi – il coniuge o un parente di primo grado convivente con disabilità in situazione di gravità accertata (ai sensi dell'art. 3 della legge 104), ovvero un parente o un affine di secondo grado convivente, qualora i genitori o il coniuge della persona affetta da disabilità in situazione di gravità abbiano compiuto i 70 anni d'età oppure siano anch'essi affetti da patologie invalidanti o siano deceduti o mancanti;
  • soffrire una riduzione della capacità lavorativa, accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell'invalidità civile, superiore o uguale al 74%;
  • essere lavoratrice licenziata o dipendente da imprese per le quali è attivo un tavolo di confronto per la gestione della crisi aziendale presso la struttura per la crisi d'impresa, istituita presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (art. 1, comma 852, L. 296/2006).
In riferimento a quest’ultima categoria, cioè le lavoratrici licenziate o dipendenti da imprese in crisi, si potrà accedere con 59 anni di età e 35 anni di contributi entro il 31 dicembre 2024, a prescindere dal numero di figli.

Occorre anche sottolineare che i requisiti di convivenza rappresentano un elemento cruciale per l’accesso al congedo straordinario biennale e alle pensioni anticipate dedicate ai caregiver, quali Ape sociale e Quota 41, oltre alla già menzionata Opzione Donna. La normativa vigente impone condizioni rigorose circa la convivenza tra il lavoratore richiedente e il familiare con disabilità grave che necessita di assistenza continuativa. Questo requisito, seppur apparentemente semplice, determina spesso l’esito delle domande presentate all’INPS, influenzandone l’accoglimento o il rigetto.

Come, infatti, ha precisato lo stesso istituto previdenziale Inps, il “requisito dell’assistenza si considera soddisfatto solo in presenza di convivenza”. Sul punto occorre fare riferimento alla Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali del 18 febbraio 2010, dove vengono forniti chiarimenti sul concetto di convivenza. Ai fini dell’accertamento del requisito della convivenza, si legge nel documento, è “condizione sufficiente la residenza nel medesimo stabile, allo stesso numero civico, anche se non necessariamente nello stesso interno (appartamento)”.

L’unica tolleranza riguarda, quindi, un eventuale numero interno diverso (ad esempio in un condominio).

Un’alternativa percorribile consiste nel richiedere formalmente al Comune di iscrivere il caregiver nella dimora temporanea presso l’abitazione del disabile. La dimora temporanea, seppur limitata a un massimo di 12 mesi, consente di attestare la coabitazione ai fini delle procedure INPS, e di presentare la domanda di congedo o pensione. Questo strumento è particolarmente utile nei casi in cui l’effettivo spostamento di residenza non sia possibile o non convenga sotto il profilo fiscale e sociale.
Per i casi in cui è necessario un requisito di convivenza pregresso, come nel caso dell’Ape sociale, della Quota 41 e di Opzione Donna, è fondamentale pianificare con largo anticipo la modifica della residenza anagrafica, garantendo una permanenza stabile presso l’abitazione del familiare disabile almeno sei mesi prima della presentazione della domanda. Tutta la documentazione deve essere coerente e facilmente verificabile dagli uffici competenti.
Nel caso in cui la domanda venga respinta, è possibile presentare ricorso al Comitato Provinciale dell’INPS entro 90 giorni dalla notifica del rigetto.


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Pignoramento, ecco cosa puoi fare se il debitore svuota il conto corrente con un assegno circolare: tutte le soluzioni

Pubblicato il: 20/05/2025

Il presente contributo analizza le problematiche giuridiche connesse al mancato incasso degli assegni circolari nel contesto delle procedure esecutive, con particolare riferimento alla tutela dei creditori nell’ambito del pignoramento presso terzi.
Sebbene l’assegno circolare sia considerato, per definizione, un mezzo di pagamento sicuro (in quanto garantito dalla banca emittente), nella prassi si assiste a fenomeni distorsivi, legati all’inerzia o alla volontaria omissione dell’incasso da parte del beneficiario.
Si tratta di condotte che possono concretamente ostacolare l’azione del creditore procedente, compromettendo l’effettività del pignoramento e sollevando dubbi in merito alla pignorabilità di titoli non ancora riscossi e alla tutela dei diritti del creditore.

È, infatti, agevole per il debitore – consapevole di essere esposto a pignoramento del conto, sul quale potrebbe detenere una certa liquidità (è sufficiente aver ricevuto la notifica di un atto di precetto) – richiedere alla banca l’emissione di un assegno circolare intestato a sé stesso o a un terzo di fiducia, da custodire nella propria cassaforte.
In tal modo, al momento della notifica dell’atto di pignoramento, sul conto non si troverà sufficiente liquidità a soddisfare il creditore procedente.

La prima soluzione cui può tentare di ricorrere il creditore consiste nel pignoramento del titolo che, sebbene creato con finalità elusive, costituisce pur sempre un credito del debitore.
Il problema che si pone, tuttavia, riguarda le modalità concrete con cui effettuare il pignoramento di un titolo di credito, poiché, secondo un ormai risalente orientamento giurisprudenziale, è necessario procedere nelle forme del pignoramento diretto presso il debitore: l’ufficiale giudiziario, munito di titolo esecutivo e precetto, dovrebbe recarsi presso l’abitazione del debitore e cercare, aprendo porte, cassetti e ripostigli, beni da assoggettare all’espropriazione mobiliare (ipotesi più teorica che pratica).

In tal senso si è espressa Cass. Civ., Sez. II, n. 2917 del 07.04.1990, così massimata: “Il pignoramento di un credito incorporato in un titolo cambiario che, anziché nella forma del pignoramento presso il debitore diretto (prenditore o giratario del titolo), con materiale acquisizione del medesimo (art. 1997 del c.c. e art. 513 del c.p.c.), venga irritualmente eseguito nella forma del pignoramento presso terzi ai sensi dell’art. 543 del c.p.c., cioè presso l’obbligato cambiario, è affetto da nullità radicale ed insanabile, la quale si riflette sugli atti successivi, ad esso collegati direttamente e necessariamente, e così anche sull’assegnazione del credito, e può essere dedotta e fatta valere dal debitore con l’opposizione agli atti esecutivi, senza essere vincolato al termine perentorio posto dall’art. 617 del c.p.c.”.
In senso contrario vi è, tuttavia, chi ritiene ammissibile il pignoramento presso terzi, argomentando sulla base di quanto affermato dalla stessa Corte di Cassazione, Sez. III Civile, n. 7394 del 07.07.1993, così massimata: “L’opposizione con la quale il debitore fa valere l’irregolarità del pignoramento di un credito, incorporato in un titolo di credito emesso da un terzo, perché eseguito con le forme del pignoramento presso terzi (art. 543 c.p.c.) anziché con quelle del pignoramento presso il debitore (mediante, cioè, la materiale apprensione del titolo), ha natura di opposizione agli atti esecutivi e deve essere, pertanto, proposta nel termine di cinque giorni dall’ingiunzione al debitore di astenersi dal compimento di atti diretti a sottrarre alla garanzia i beni soggetti all’espropriazione, dalla quale dipende il pregiudizio del debitore e l’interesse, quindi, dello stesso all’opposizione” (conforme Cass. Civ., Sez. III, n. 22876 del 06.12.2004; Cass. Civ., Sez. III, n. 12175 del 14.05.2019).

Secondo una parte della dottrina, inoltre, l’istituto di credito terzo pignorato, in virtù del dovere di collaborazione che incombe su di esso in quanto “ausiliario del giudice”, non dovrebbe limitarsi a dichiarare il saldo del conto corrente, ma anche se siano stati emessi assegni circolari e se trattenga ancora la relativa provvista, in caso di assegni non ancora incassati.
Tale impostazione appare tuttavia poco convincente, non potendosi addossare al terzo obblighi informativi di tale portata.

Più funzionale allo scopo (ovvero al recupero della provvista congelata per uno o più assegni non riscossi) sembra essere il ricorso al c.d. “ordine di esibizione”, disciplinato dall’art. 210 del c.p.c., strumento volto ad acquisire documenti o cose in possesso di una parte o di un terzo, quando necessari alla risoluzione della controversia.
Nel caso del pignoramento presso terzi, tale strumento può essere utilizzato per ottenere l’esibizione degli estratti conto, documenti indispensabili affinché il creditore procedente possa:

  1. accertare le operazioni effettuate sul conto del debitore prima e dopo la notifica del pignoramento, al fine di verificare eventuali disposizioni illegittime di somme;
  2. dimostrare se la banca abbia effettuato pagamenti al debitore nonostante il pignoramento, consentendo così di contestarli.

Per potersi avvalere di tale strumento, si ritiene necessario che il creditore, in sede di pignoramento presso terzi, richieda contestualmente al giudice dell’esecuzione – oltre al blocco di eventuali saldi attivi – anche l’emissione di un ordine di esibizione degli estratti conto, allegando idonea documentazione giustificativa (si pensi, ad esempio, a un’azienda con rilevante fatturato ma con saldo attivo pari a pochi spiccioli).
Il giudice, previa valutazione del fondamento della richiesta, potrà emettere un’ordinanza costituente valido titolo per obbligare la banca a produrre, entro un termine prestabilito, i documenti richiesti.

Qualora dagli estratti conto – da sottoporre all’analisi del giudice dell’esecuzione – emergesse l’emissione di assegni circolari non ancora riscossi, si potrebbero configurare due scenari:

  1. richiedere il sequestro conservativo del titolo, ex art. 2905 del c.c., da annotare sul titolo stesso ai sensi dell’art. 1997 del c.c.;
  2. avvalersi di quanto disposto dall’ultimo comma dell’art. 86 della Legge Assegni (R.D. 21.12.1933, n. 1736), norma che, nel caso di assegni circolari con clausola “non trasferibile”, esclude l’ammortamento, ma prevede il diritto del prenditore di ottenere il pagamento dell’assegno, dopo venti giorni dalla denuncia, presso la filiale presso cui è stata fatta la denunzia.

Nel caso di assegno emesso in favore dello stesso debitore-correntista, la banca dovrebbe, in buona sostanza, rendere nuovamente disponibile la provvista sul conto: a tale somma così rientrata dovrebbe estendersi il pignoramento già notificato.

Sempre al fine di prevenire simili comportamenti fraudolenti, si consiglia, in sede di notifica dell’atto di pignoramento, di specificare espressamente che lo stesso “deve intendersi esteso anche a ogni credito che possa derivare dalla restituzione della provvista relativa ad eventuali titoli di credito emessi su richiesta del debitore e non ancora incassati”.


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Affitti, ok alla cedolare secca anche per le partite IVA, la Cassazione smentisce il Fisco: ecco le ultime sentenze

Pubblicato il: 19/05/2025

In materia di contratti di locazione, la giurisprudenza della Cassazione si consolida con due sentenze – la n. 12076 e la n. 12079 del 7 maggio scorso – le quali si oppongono ad un discusso orientamento dell'Agenzia delle Entrate, ritenendolo infondato e confermando – invece – la possibilità di scegliere la cedolare secca anche in riferimento ai conduttori con partita IVA (lavoratori autonomi, liberi professionisti, imprenditori). In sostanza, secondo la Suprema Corte, anche con inquilini che agiscono nell'esercizio di attività d'impresa, il proprietario può esercitare l'opzione della cedolare tramite modello RLI, usufruendo così della tassazione flat e sostitutiva Irpef.

Ricordiamo che la cedolare secca affitti è un regime fiscale facoltativo, agevolato e con aliquota fissa, applicabile ai redditi da locazione di immobili destinati a uso abitativo, mentre non è applicabile agli affitti per attività professionali, imprenditoriali o per immobili accatastati come uffici.

Ebbene, fino a poco tempo fa, si riteneva – secondo l'interpretazione dell'Agenzia delle Entrate – che tale regime non potesse essere applicato ai contratti in cui il conduttore fosse un soggetto con partita IVA, un veto ritenuto dal Fisco coerente con la ratio della legge in materia, individuabile nel contrasto all'evasione fiscale nel settore della locazione di immobili.

Ora, con le recenti sentenze n. 12076 e 12079, la Cassazione ha analizzato due distinte casistiche, accomunate però dalla stessa questione di fondo, vale a dire la possibilità di utilizzare – o meno – il regime della cedolare secca, per contratti stipulati con conduttori aventi partita IVA. L'orientamento ormai solido della Suprema Corte, oltre a fare chiarezza su una questione complessa e dibattuta, intende in verità anche ridurre la mole di contenziosi tra contribuenti e Amministrazione finanziaria, causati dal veto opposto da quest'ultima, un'esclusione per i contratti sottoscritti da esercenti attività d'impresa o lavoro autonomo che, fin dal varo del regime fiscale agevolato, aveva generato non poche dispute in tribunale.

Tuttora sul sito web ufficiale delle Entrate, nella pagina che tratta della cedolare secca, si rimarca che – sul fronte dei requisiti per gli inquilini – la tassazione agevolata non può essere applicata ai contratti conclusi con conduttori titolari di partita IVA, "indipendentemente dal successivo utilizzo dell'immobile per finalità abitative di collaboratori e dipendenti". Proprio queste parole sono alla base di numerosi contenziosi.

Ma con le recentissime novità giurisprudenziali citate, che confermano la sentenza 12395/2024, la Cassazione disattende le indicazioni dell'Amministrazione finanziaria e, in particolare, sottolinea che:

  • l'esclusione della cedolare secca di cui all'art. 3, comma 6 del d. lgs. 23/2011 deve intendersi riferita esclusivamente ai titolari di partita IVA che locano unità immobiliari ad uso abitativo nell'esercizio di una attività d'impresa o di arti e professioni;
  • pur nel rispetto della finalità abitativa dell'immobile, tale regime agevolato resta invece utilizzabile pur se il conduttore – persona fisica con partita IVA – esercita attività di impresa, arte o professione.
Secondo la Cassazione, quindi, non assume alcuna rilevanza la natura soggettiva del conduttore del contratto di affitto e, conseguentemente, potrà applicarsi la cedolare secca – ad esempio – al contratto in cui un medico di base prende in affitto un appartamento, per trasferirsi in una nuova città dove ha aperto lo studio. O, ancora, potrà applicarsi al fotografo freelance (persona fisica con partita IVA) che prende in locazione un appartamento in città per soggiorni legati a servizi fotografici temporanei; ed è anche il caso degli imprenditori che affittano immobili con finalità abitativa ad uso foresteria, ossia per soddisfare le esigenze abitative del personale.

Con questa conferma dell'indirizzo giurisprudenziale della Cassazione, il Fisco è ora chiamato a considerare un cambio di rotta, anche in considerazione dell'interrogazione dello scorso 12 maggio, presentata in Commissione Finanze della Camera, che chiede di aggiornare le regole di prassi sulla scorta di queste ultime sentenze. Concludendo, i locatori possono optare per la cedolare secca anche se affittano a imprese, professionisti o ditte individuali, purché l'immobile sia abitativo; tale impostazione della Suprema Corte rappresenta, di fatto, una vittoria per i proprietari che vogliono offrire in locazione abitazioni anche a soggetti economici, senza perdere il beneficio fiscale.


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Condominio, divieto di installazione condizionatori: ecco quando, tutte le regole e i limiti previsti dalla legge

Pubblicato il: 19/05/2025

L’installazione di un condizionatore in condominio non di rado genera controversie tra i condomini, soprattutto quando questi sollevino questioni legate alla rovina del decoro architettonico, alle immissioni rumorose o, in generale, alla sicurezza dell’edificio. La normativa vigente consente l'installazione dei condizionatori, ma al contempo impone ai singoli proprietari il rispetto di alcune regole fondamentali nell’esercizio del loro diritto di proprietà. Vediamo quali sono le possibilità e i limiti previsti dalla legge.
L’installazione di un condizionatore rientra nell’ambito dell’uso delle parti comuni e delle modifiche alle proprietà individuali all’interno di un condominio. A regolamentare questa materia intervengono:
1) il Codice Civile, in particolare gli artt. 1102, 1122 e 1122 bis;
2) il regolamento condominiale;
3) le norme comunali e i regolamenti edilizi;
4) la giurisprudenza in materia.

L’articolo 1102 c.c. stabilisce che ogni comproprietario ha il diritto di utilizzare le parti comuni dell’edificio, purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri di farne ugualmente uso. In base a questa disposizione, l’installazione di un condizionatore sulla facciata, nel cortile o su altre parti comuni è ammessa, a condizione che:

  • non arrechi pregiudizio al decoro architettonico;
  • non comprometta la sicurezza dell’edificio;
  • non impedisca agli altri condomini di fruire delle parti comuni;
  • rispetti le eventuali prescrizioni del regolamento condominiale.
L’art. 1122 c.c. consente ai singoli condomini di effettuare l’installazione di impianti nella propria porzione di edificio, purché tale installazione non arrechi danno alle parti comuni e non intacchi il decoro, la stabilità e la sicurezza dell’intero edificio. In ogni caso, prevede che di questi interventi venga sempre data preventiva notizia al condominio (nella persona dell’amministratore).

L’articolo 1122-bis c.c. introduce ulteriori regole specifiche, in particolare per impianti destinati alla produzione di energia rinnovabile, come i pannelli solari, prevedendo che, anche in questo caso, la loro installazione non debba compromettere la stabilità e la sicurezza dell’edificio.

Il regolamento condominiale può, anch’esso, stabilire limitazioni o condizioni specifiche per l’installazione dei condizionatori. Ad esempio, può vietarne l’installazione sulle facciate principali o imporre specifiche prescrizioni per ridurre l’impatto visivo e acustico dell’impianto.
Tuttavia, un divieto generale e assoluto sarebbe illegittimo, specialmente quando si tratti di un mero regolamento condominiale assembleare.
Infatti, il regolamento condominiale – a seconda di come si è formato – può avere due diverse nature giuridiche:

  1. regolamento di natura assembleare: si forma con deliberazione adottata a maggioranza dei condomini. Questo tipo di regolamento può disciplinare la ripartizione delle spese tra le unità immobiliari facenti parte del condominio, così come può prendere decisioni relative ad eventuali interventi straordinari da effettuare. Tuttavia, la legge non consente di imporre divieti o limitazioni al diritto di proprietà dei singoli condomini tramite un regolamento condominiale adottato mediante approvazione della sola maggioranza dei condomini. Per fare ciò, sarà necessario adottare un
  2. regolamento di natura contrattuale: si forma con approvazione all’unanimità di tutti i condomini al momento della costituzione del condominio o successivamente alla sua costituzione, purché sempre a seguito di deliberazione unanime. Con questo tipo di regolamento, si possono prevedere dei divieti da imporre ai singoli condomini nell’esercizio del loro diritto di proprietà.

Premesso quanto sopra, al fine di rendere noto a tutti (anche ad acquirenti futuri ed eventuali) le limitazioni al diritto di proprietà adottate dai condomini con regolamento contrattuale, è necessario trascrivere tale regolamento nei registri immobiliari?
Dal momento che la trascrizione del regolamento nei registri immobiliari ha effetto di sola pubblicità dichiarativa, non è obbligatoria la sua trascrizione per renderlo vincolante tra le parti, ma in caso non ricorrano determinati presupposti esso non sarà opponibile ai terzi. La giurisprudenza ha chiarito che il regolamento condominiale deve essere trascritto affinché anche i futuri acquirenti ne abbiano conoscenza, ma può anche non essere trascritto se viene direttamente allegato all’atto notarile di compravendita. Così facendo, l’acquirente che si accinge ad acquisire la proprietà immobiliare dichiarerà di essere a conoscenza del regolamento condominiale esistente e di vincolarsi ad esso con l’acquisto dell’unità immobiliare.

Uno degli aspetti più delicati riguarda poi il decoro architettonico. Secondo la giurisprudenza, il concetto di decoro architettonico si riferisce all’aspetto estetico dell’edificio e alla sua armonia visiva. L’installazione di un condizionatore su una facciata visibile dalla strada potrebbe essere considerata una modifica che altera il decoro, specialmente in edifici storici o di pregio.
Se l’assemblea condominiale ritiene che l’impianto pregiudichi il decoro architettonico, potrebbe chiederne la rimozione. Tuttavia, spetta al giudice valutare caso per caso se il pregiudizio sia effettivo.

In sintesi, il condominio non può vietare l’installazione dei condizionatori in maniera arbitraria, ma può imporre regole per garantire il rispetto del decoro architettonico, della sicurezza e del diritto al quieto vivere degli altri condomini. L’unico modo in cui esso potrà imporre divieti ai condomini è mediante un regolamento condominiale di natura contrattuale, trascritto nei pubblici registri immobiliari oppure menzionato esplicitamente nell’atto di provenienza dell’immobile.
Come prassi di buon senso ed anche in assenza di uno specifico divieto, prima di procedere con l’installazione è sempre consigliabile verificare il regolamento condominiale e, se necessario, ottenere l’autorizzazione dell’assemblea per evitare contestazioni legali.


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Dipendenti pubblici, stipendi più alti da giugno e bonus fino a 1.000 euro: ecco a chi spetta e fasce in base al reddito

Pubblicato il: 19/05/2025

Buone notizie per chi lavora nel pubblico impiego: a partire da giugno 2025, gli stipendi dei dipendenti statali saranno più ricchi grazie all’applicazione effettiva del taglio del cuneo fiscale. A confermarlo è il portale NoiPA, che ha annunciato l’avvio ufficiale dell’erogazione dei benefici, finora rimasti in sospeso.

Cuneo fiscale 2025: cosa cambia per gli statali
Mentre, nel settore privato, le misure introdotte dalla Legge di Bilancio 2025 sono già operative da mesi, i dipendenti pubblici hanno dovuto attendere l’adeguamento del sistema di gestione delle buste paga. Il ritardo sta però per essere colmato: il cedolino di giugno conterrà lo sgravio fiscale previsto, più le mensilità arretrate da gennaio a maggio.
Il vantaggio economico stimato per ciascun lavoratore si aggira intorno agli 82 euro mensili, che verranno versati in un'unica soluzione insieme allo stipendio di giugno, visibile sul portale NoiPA indicativamente dal 20 del mese.

Bonus extra per redditi bassi: chi ha diritto e quanto spetta
Oltre alla riduzione del cuneo fiscale, la Manovra prevede ulteriori vantaggi per i redditi più contenuti. I dipendenti pubblici con un reddito complessivo annuo entro i 20.000 euro potranno beneficiare di un’integrazione economica esentasse. L’ammontare del bonus varia in base al reddito:

  • 7,1% per redditi fino a 8.500 euro
  • 5,3% per redditi tra 8.501 e 15.000 euro
  • 4,8% per redditi tra 15.001 e 20.000 euro
Chi percepisce, invece, un reddito tra 20.001 e 40.000 euro potrà contare su una detrazione aggiuntiva:
  • 1.000 euro per redditi da 20.001 a 32.000 euro;
  • detrazione decrescente tra 32.001 e 40.000 euro, fino ad azzerarsi oltre questa soglia.
Come viene calcolato lo sconto fiscale?
NoiPA ha fornito chiarimenti anche in merito ai meccanismi di calcolo utilizzati per determinare l’importo spettante. Il sistema combina i redditi effettivamente percepiti nei primi cinque mesi dell’anno con una stima del reddito atteso da giugno a dicembre, inclusa la tredicesima. In caso di cessazioni anticipate del contratto, queste saranno considerate nel calcolo.
Quando disponibile, viene anche confrontato il reddito del 2025 con quello risultante dalla Certificazione Unica del 2024. Se quest’ultimo è più elevato, sarà usato come riferimento per evitare penalizzazioni dovute a compensi accessori o straordinari non ancora maturati nel nuovo anno.

Come rinunciare al beneficio se non si ha diritto
Per garantire la correttezza nell’erogazione e prevenire indebiti fiscali, NoiPA attiverà anche una funzione online che permetterà di rinunciare in modo volontario al beneficio. L’opzione sarà disponibile nell’Area Riservata del portale e servirà a tutelare quei lavoratori che, avendo altri redditi non registrati nel sistema, rischiano di superare i limiti di legge.
La rinuncia potrà essere effettuata in autonomia, direttamente dalla piattaforma, evitando così successive operazioni di recupero delle somme non dovute in sede di conguaglio.


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Autovelox, non devi pagare le multe e non perdi i punti della patente: nuova sentenza di Cassazione sull’omologazione

Pubblicato il: 19/05/2025

I verbali per eccesso di velocità sono nulli, quando la rilevazione dell’infrazione è avvenuta con autovelox non omologati ma semplicemente approvati.

Con l’ordinanza n. 1332/2025, pubblicata lo scorso 14 maggio 2025, la Corte di Cassazione – ribadendo l’orientamento già espresso nelle ordinanze n. 10505/2024 e n. 20913/2024 – ha ulteriormente consolidato la linea interpretativa secondo cui l’omologazione dell’autovelox è condizione necessaria per la legittimità delle sanzioni. Di qui la rilevata nullità di ben 13 verbali di accertamento e la revoca della decurtazione dei punti inflitta a un automobilista.

Significativa è anche la posizione manifestata dalla Suprema Corte rispetto a una circolare del Ministero dell’Interno del 23 gennaio 2025, nella quale si tentava una equiparazione funzionale tra approvazione e omologazione. Il Collegio di legittimità ha ritenuto tale argomento incompatibile con i principi del nostro ordinamento, considerato che le circolari amministrative non hanno valore normativo e non possono, dunque, modificare né disapplicare una norma di rango primario (nel caso di specie si tratta dell'art. 142 del Codice della strada), che prescrive la "debita omologazione" per i misuratori di velocità.

Come puntualizza la Suprema Corte, omologazione e approvazione sono due procedimenti distinti: l'omologazione rappresenta il procedimento avente lo scopo di verificare l'efficacia e il corretto funzionamento degli autovelox e la loro rispondenza a determinate caratteristiche tecniche ovvero, in sostanza, a conferire valore legale di prova alle fotografie scattate e alla velocità rilevata.
La maggiore importanza dell'omologazione sta, quindi, nella funzione pubblicistica di garanzia: con essa si certifica che l’intero processo di rilevazione della velocità sia conforme alle esigenze di precisione, legalità e tutela dei diritti dei cittadini. Affidarsi solo all’approvazione – generalmente rilasciata in fase di prima immissione sul mercato – non è sufficiente a soddisfare questi criteri.
L'omologazione, essendo indispensabile per garantire il funzionamento corretto dello strumento, costituisce, quindi, il presupposto ai fini della validità legale delle multe.

Per rimediare alle criticità emerse dalla giurisprudenza, il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha predisposto uno schema di decreto che regolamenta l'uso degli autovelox, decreto in fase di vaglio e destinato ad entrare in vigore in concomitanza con l’estate.

Il decreto in questione è composto da sette articoli e da un dettagliato allegato tecnico contenente caratteristiche, requisiti e procedure di omologazione, taratura e verifica di funzionalità dei dispositivi e sistemi per l'accertamento delle violazioni dei limiti massimi di velocità. Lo scorso 23 marzo è stata, però, inviata alle agenzie stampa una nota, con cui il Ministero medesimo ha comunicato la “sospensione” dello schema di decreto in questione.

In particolare, il fulcro delle perplessità dell'emanando provvedimento ruota intorno alle relative disposizioni transitorie, secondo cui "i dispositivi o sistemi approvati secondo quanto previsto dal D.M. del 13 giugno 2017, n. 282, essendo conformi alle disposizioni dell'allegato tecnico, sono da ritenersi omologati d'ufficio".

Cosa significa?
In pratica, tutti gli autovelox approvati dal 13 giugno 2017 in poi sono da ritenersi omologati. E, dunque, possono restare in funzione, perché rispettano già le norme sulla taratura che sono state introdotte quell'anno. Lo scopo era, evidentemente, proprio quello di eliminare il rischio di un gran numero di ricorsi relativi a violazioni dei limiti massimi di velocità ai sensi del citato art. 142, violazioni riscontrate da apparati autovelox approvati e, dunque, costruiti secondo le prescrizioni previste, ma non omologati, cioè mai collaudati e verificati nelle tarature di rilevamento.
Tuttavia, si è constatato che i sistemi autovelox omologabili d'ufficio per effetto del decreto sono soltanto 12, a fronte di un totale di oltre 100 modelli diversi di rilevatori correntemente utilizzati sul territorio italiano. Di qui il rischio temuto dai Comuni: le multe emesse su segnalazione degli apparecchi approvati prima del 13 agosto 2017, lasciati accesi, sarebbero annullate con effetto dirompente per le rispettive casse.


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Condominio, chi parcheggia abusivamente nel cortile condominiale rischia 800 euro di multa: ecco come puoi tutelarti

Pubblicato il: 19/05/2025

Uno dei problemi più comuni e, al contempo, più difficili da risolvere è quello dei posti auto in condominio. Non sono rari i casi in cui, nell’ambito degli spazi condominiali, mancano parcheggi assegnati o aree dedicate alle auto. La questione si complica, poi, ulteriormente se ogni famiglia possiede più veicoli. In assenza di box o posti scoperti sufficienti, molti iniziano a occupare zone comuni, trasformandole in aree di sosta improvvisate. È davvero lecito parcheggiare ovunque?

Quando il parcheggio diventa un abuso
Quando si parla di “parcheggio abusivo” non si fa solo riferimento alla sosta in uno spazio non autorizzato, ma anche alla limitazione del godimento da parte degli altri condomini delle aree comuni, come ad esempio cortili, vialetti, aree verdi, spazi antistanti ai portoni, ai box o alla portineria, che in genere non sono adibiti al parcheggio di automobili. Quando un condomino usa questi spazi come se fossero suoi, compie una violazione vera e propria, ledendo il diritto di godimento degli altri.
Secondo il Codice Civile, più precisamente l’art. 1102, è vietato appropriarsi in modo esclusivo di parti comuni: ogni uso, infatti, deve essere compatibile con i diritti degli altri. In parole semplici: se, parcheggiando la propria auto in una determinata area, si impedisce ad altri di passare, accedere, caricare o scaricare, si tratta di un comportamento illegittimo.

Il ruolo dell’amministratore: cosa può (e cosa non può) fare
Chi deve intervenire quando la situazione diventa insostenibile? L’amministratore ha il dovere di garantire il rispetto delle norme condominiali. Tuttavia, non ha il potere di far rimuovere forzatamente e in autonomia un veicolo: legittimate a ciò sono, infatti, le sole autorità competenti, come la polizia locale, le quali possono agire in tal senso, anche se, generalmente, solo su strade pubbliche.
Pertanto, l’intervento dell’amministratore è limitato ad un mero richiamo formale nei confronti del responsabile e ad un invito a rimuovere il veicolo. Qualora la condotta abusiva dovesse persistere, l’amministratore potrà convocare l’assemblea condominiale al fine di ripristinare il corretto uso degli spazi comuni, anche eventualmente ricorrendo a vie legali, secondo quanto disposto dall’art. 1117 quater del c.c..

Sanzioni: quando scatta la punizione
In alcuni casi, il regolamento di condominio può prevedere sanzioni pecuniarie per chi viola le regole. In base all’art. 70 delle disp. att. c.c., le sanzioni possono arrivare fino a 200 euro per una prima infrazione e salire fino a 800 euro in caso di reiterazione della condotta nel tempo.
Tuttavia, l’amministratore può applicare tali sanzioni solo se, all’interno del regolamento condominiale, sia prevista una clausola chiara e regolarmente approvata dall’assemblea. Inoltre, resta sempre necessaria la delibera assembleare per rendere effettiva la sanzione.


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Legge 104, puoi ottenerla anche se soffri di disturbi alimentari: ecco l’elenco delle patologie completo e aggiornato

Pubblicato il: 18/05/2025

Negli ultimi anni, i disturbi del comportamento alimentare (DCA) hanno registrato un preoccupante aumento, coinvolgendo persone di ogni età e genere. Anoressia, bulimia, binge eating e ortoressia non sono più fenomeni rari o circoscritti, ma rappresentano oggi una vera emergenza sanitaria e sociale. Si tratta di patologie complesse, spesso sottovalutate, che incidono profondamente sulla qualità della vita, sulle relazioni sociali e sulla capacità lavorativa. Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM), questi disordini si manifestano attraverso condotte alimentari atipiche, talvolta pericolose per la sopravvivenza stessa della persona.
Proprio per questo, il riconoscimento dell’invalidità civile e dei benefici previsti dalla Legge 104 può diventare fondamentale per garantire assistenza e tutele adeguate a chi ne soffre.

Anoressia, bulimia e ortoressia: i disturbi più diffusi
Nel caso dell’anoressia nervosa, la persona riduce drasticamente l’assunzione di alimenti, compromettendo il proprio stato di salute. Manifestazioni tipiche dell’anoressia sono il timore di prendere peso, una visione distorta del proprio fisico, incapacità di comprendere il proprio stato di denutrizione e infine bassa considerazione di se stessi.
All’opposto, la bulimia si manifesta attraverso abbuffate compulsive seguite da condotte compensatorie, per eliminare il cibo ingerito, come il vomito autoindotto o l’assunzione eccessiva di lassativi. Entrambe le condizioni, in forme diverse, causano gravi danni fisici e psichici.
Accanto a queste, esistono anche disturbi più recenti come l’ortoressia, che spinge a un’ossessiva ricerca della purezza alimentare. In questi casi, nonostante l’apparente salute fisica, la qualità della vita può peggiorare drasticamente a causa dell’isolamento sociale e del rifiuto di situazioni non conformi ai rigidi criteri autoimposti.

Il binge eating e altri disturbi meno noti
Il disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder o B.E.D.) si distingue per abbuffate non seguite da comportamenti compensatori. Chi ne soffre non per forza è obeso, ma vive comunque episodi ricorrenti di perdita di controllo e profondo disagio emotivo.
Vi sono poi condizioni come il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo, che comporta un rifiuto selettivo verso determinati alimenti, oppure il disturbo di ruminazione, con rigurgiti ripetuti, e il pica, ovvero l’ingestione continuativa di sostanze prive di valore nutritivo (come sabbia, carta o sapone).

Invalidità civile per disturbi alimentari: quando è prevista?
Le patologie alimentari possono compromettere seriamente la capacità lavorativa. In base alle Linee guida INPS, anoressia e bulimia sono tra i disturbi esplicitamente riconosciuti per fini di invalidità civile. Le percentuali variano in base alla gravità del deficit riscontrato:

  • anoressia con compromissione lieve: 35%;
  • anoressia con deficit moderato: 45%;
  • anoressia con gravi ripercussioni: tra il 75% e il 100%;
  • bulimia nervosa non complicata: 20%.
Per i soggetti non in età lavorativa (come i minori e gli over 65), si prendono in considerazione il grado di autonomia personale e la capacità di svolgere le normali funzioni della vita quotidiana.

Disturbi alimentari e Legge 104: è possibile ottenere il riconoscimento della disabilità?
Oltre al riconoscimento dell’invalidità civile, chi soffre di gravi disturbi alimentari può accedere ai benefici previsti dalla legge 104/92 se la patologia compromette in modo rilevante la vita sociale, familiare e lavorativa.
La legge 104 si rivolge a chi, a causa di una menomazione fisica, psichica o sensoriale, presenta una difficoltà oggettiva di integrazione nella vita quotidiana. Nei casi in cui un disturbo alimentare limita seriamente le interazioni sociali, impedisce di lavorare o partecipare alla vita familiare, può essere riconosciuto uno stato di disabilità con tutti i benefici connessi.


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